Il tenore napoletano ritorna all’Opera di Roma per sostituire Luciano Ganci e dopo sette anni ritrova il maestro sul podio nella Tosca, per l’opera d’elezione di entrambi, per continuare a festeggiare i 125 anni di una delle eroine pucciniane più amate.
“O fortuna/velut luna/statu variabilis/semper crescis/aut decrescis/vita detestabilis” recita il testo del più famoso dei Carmina Burana. In una città che vive a ridosso di un vulcano quiescente, il senso del miracolo è un’esperienza quotidiana, così come propiziarsi la fortuna e tenere lontana la iella sono attività prese molto seriamente dai napoletani poi, se Roberto De Simone, scrive che il “Carnevale si chiama Vincenzo”, le corrispondenze sono lette e i bei “numeri” del tenore Costanzo sono stati giustamente giuocati. Nel Carnevale romano, infatti, l’inatteso forfait del tenore Luciano Ganci, nella seconda produzione della Tosca delle celebrazioni dei 125 anni dalla prima, proprio al Costanzi, del capolavoro pucciniano, ha fatto ritornare il tenore napoletano Vincenzo Costanzo, quale Mario Cavaradossi, sul palcoscenico dell’Opera di Roma, dopo la felice incursione con Francesco Ivan Ciampa sul podio, stavolta diretto dalla bacchetta di Daniel Oren, dopo sette anni di muto silenzio. Il nostro tenore aspirava a tornare a cantare in una produzione “oreniana” e la Fortuna ha voluto che si rincontrassero su di una partitura d’elezione per entrambi, Tosca. Daniel Oren è il direttore delle belle voci e ha rincontrato un tenore che non è più il giovanissimo lanciato nell’agone, un po’ come fu per Caruso, “Carusiello” (e non ne celiamo qualche somiglianza anche nel volto) ma una voce che si avvia ad essere quella del “Signor tenore”, in cui le lezioni che dà la vita hanno inciso, unitamente ad un deciso cambio di studio e maestri. Da un anno al lavoro con il pianista Otello Visconti, Costanzo ha dato vita al ruolo del Cavalier Cavaradossi, per il quale proprio qui a Roma, tra le scene della prima assoluta del 1900, ha ricevuto in questa Tosca oreniana, tormentata, quanto la partitura del Maestro, l’imprimatur del pubblico nelle due ultime repliche, schizzando un personaggio con le sue due celebrate arie “Recondita armonia” unitamente a “E lucevan le stelle”, valorizzate dal fraseggio melodioso, dalla intensa espressività, dalla modulazione armoniosa della sua voce, da quell’impasto che sa lanciare riflessi color del bronzo, scuro, morbido e rotondo, esaltando il carattere creativo della poesia del ricordo che si perpetua perennemente attraverso molteplici e costanti modificazioni, elaborazioni e ricreazioni, ogni qualvolta la ricanti e la riempia della sua stessa personale spiritualità e ispirazione del momento. Stato di grazia per il tenore, parimenti per il Maestro Daniel Oren e per la sua orchestra, in cui ha ritrovato una splendida rappresentanza della tradizione dei fiati salernitani, nella super fila dei corni, guidata da Carmine Pinto, con a fianco Giorgio Cardiello e Vincenzo Di Lieto, oltre ai contrabbassisti di scuola napoletana, Federico Perna e Vincenzo Carannante.
Nel ruolo del titolo una Jolanda Ayuanet, alla quale imputiamo solo una certa esilità nella voce, delle volte soverchiata completamente dall’ orchestra oreniana, non ha tentato di esibire il magnetismo della femme fatale, cercando di interiorizzare il personaggio, attraverso la sofferenza amorosa, la delusione e la scelta di morte. Oren alla guida di un’orchestra ha sempre da pingere i contrasti di questa partitura, tra scoppi, anche ritmici e pianissimi, che a volte riescono a mettere in difficoltà i legni, la qual scuola italiana vuol comunque vivi e tensivi: non stavolta, però dove tutto è scorso nel tempo giusto, aumentando quel gusto del “movie” e dell’ “istante” per il quale Puccini ci fa pensare quale riferimento filosofico ad Henry Bergson e alla sua contrapposizione tra tempo-vissuto, tempo interiore e tempo-spazio. Il tempo si cristallizza, in particolare nel “Vissi d’arte” e nell’addio alla vita di Cavaradossi quale autosufficienza dell’istante, assume una dimensione sacrale, iniziatica, misterica; è l’atto, la vita stessa nella sua pienezza, a quel compromesso col sogno, nonostante la scelta di una morte per conseguire un diverso destino, un diverso corso di vita, un diverso presente, da ciò che sembra prefissato nel binario implacabile dell’umaniforme senso comune. Una direzione che ha sposato in pieno la regia di Alessandro Talevi, la cui ricerca l’ha portato a rifarsi non solo al libretto, ma a quanto avvenuto in quella celebrata prima che inaugurò il secolo breve, il secolo del “cambiamento”, sulle scene originali di Adolf Hohenstein. Puccini è canto sulla parola, più degli altri grandissimi della nostra letteratura operistica, ugualmente hanno da realizzare l’orchestra e il regista. Più di tutti in quest’opera lo ha da fare il Barone Scarpia, che incarna l’idea di modernità di Giacomo Puccini, latore del suo infinito carico di dissonanze, che ha avuto la voce di Gabriele Viviani, il quale ha dignitosamente gestito il canto di conversazione pucciniano, ma non lasciando a pieno intuire il suo essere assoluto motore della storia. A completare la prova della compagine vocale, l’ottimo Angelotti di Gabriele Sagona con una caratterizzazione sia vocale che scenica molto ben definita, il Sagrestano di Domenico Colaianni, che è risultato equilibratamente incisivo nei momenti più caricaturali, sebbene in alcuni punti fosse un po’ sovrastato dall’orchestra, come quasi l’intero cast, Saverio Fiore che ha interpretato Spoletta, vera ombra di Scarpia, mentre Andrea Jin Chen ha dato vita a uno Sciarrone austero, quindi Alessandro Guerzoni ha interpretato il Carceriere ed Emma MacAleese ha deliziosamente delineato il Pastorello. Un plauso al Coro del Teatro dell’Opera di Roma, preparato dal Maestro Ciro Visco e alla Scuola di Canto Corale, che da par suo ha reso perfettamente varietà di tessiture musicali che culminano proprio nel Te Deum del primo atto, che rappresenta l’apice di potenza espressiva, in quella fusione di sacro e profano, simbolo di una realtà complessa, che realizza un’esperienza scenica di grande impatto.